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Il Libro Bianco – Primo Capitolo – Il giusto cammino
Anthonty Cristel
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Il Libro Bianco – Primo Capitolo – Il giusto cammino

Il buio lo circondava. Il silenzio veniva spezzato solo dal suo ansimare.
Non aveva più fiato e il suo respiro era affannato per riuscire
a fuggire da… da chi? Da un’ombra? Da un lontano fruscio? Ma
il terrore lo assaliva solo al pensiero. Trattenne il respiro, cercando
così di non fare neppure il più piccolo rumore.
Era già pronto a correre di nuovo. I rami, le foglie, il vento,
pure loro sembravano tacere.
La foresta scura forse era riuscita a nasconderlo, ma per quanto?
E che ci faceva in un luogo simile? Non aveva alcun ricordo
di come ci fosse arrivato. Nel cielo, le stelle e le due lune erano le
uniche fonti di luce, ma le fosche nubi nel cielo poco a poco coprirono
anch’esse. E così di nuovo il buio, il buio e il suo respiro
tornato finalmente normale.
Pensò che forse era stata solo frutto della sua immaginazione,
una sua fantasia e, sorridendo, tirò un sospiro di sollievo, ma fu
proprio in quello stesso preciso momento che vide il suo costato:

una piccola stecca di legno, o forse di acciaio, spuntava fuori
dalla propria armatura, sul lato sinistro, all’altezza dello stomaco.
Armatura? Perché indossava un’armatura? Il dolore incominciò a
percuoterlo, si sparse per tutto il corpo in un solo istante. Subito
avvicinò la mano alla stecca: era dura, gelida, grondante di sangue,
del suo sangue. Le piccole piume che concludevano la stecca, forse
nere, forse blu notte, di un corvo probabilmente, gli fecero capire
che si trattava proprio di ciò che sperava non fosse: una freccia!
Il dolore intanto cominciava a piegarlo, ma strinse i denti.
Non era solo la sua immaginazione, quindi; ciò che stava vivendo
era reale e il dolore cominciava a intorpidirgli persino le gambe.
Provò lentamente a raddrizzarsi ma una fitta bloccò all’istante tutto
il suo corpo, facendogli emettere un gemito di dolore. In quel
momento capì di aver fatto un tremendo errore: di fronte a lui, a
circa sessanta, settanta passi, nell’oscurità due piccoli lumi rossi
comparvero all’improvviso, e un sibilo leggero, quasi impercettibile,
lo pervase violentemente, come se lo avesse colpito un’altra di
quelle frecce. Cadde all’indietro contro l’albero a ridosso del quale
cercava di nascondersi. Le gambe non lo reggevano più. Era forse
la fine?
Cercò affannosamente il suo ciondolo sacro che portava sempre
al collo. Lo afferrò e lo strinse tra le mani insanguinate, con
forza, o meglio, con le ultime forze che aveva in corpo, volgendo
una veloce invocazione a Eldath, dea della natura, della pace e della
tranquillità; sapeva che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe
potuto fare. Alzò gli occhi al cielo per cercare almeno un lume di
speranza… ma né stelle, né lune, solo buio, nient’altro che oscurità.
Forse tutto era già finito?
Abbassò lo sguardo e si accorse che il peggio non era ancora
cominciato. I due lumini rosso fuoco erano ormai a poca distanza
da lui, e dietro ne scorse distintamente almeno altre due paia,
nonostante la vista cominciasse a offuscarsi. Il sibilo ormai era
diventato come un continuo brusio, accompagnato da alcuni versi
raggelanti provenienti come dall’oltretomba. Tutta la foresta sembrava
come se si fosse fermata, in silenzio, per godersi al meglio lo
spettacolo.
La paura cominciò a dominarlo, anche il dolore ormai faceva
solo da cornice al cumulo di sensazioni e di pensieri che lo invasero
in quei pochi istanti.
E quell’armatura che indossava lo stava soffocando… ma per
quale motivo la indossava? Lui, un uomo di pace, un uomo di puri
ideali; e costoro chi erano, o meglio, cos’erano e, soprattutto, cosa
volevano da lui? Ma forse era troppo tardi per farsi queste domande.
Non c’era più distanza fra loro!
L’essere si avvicinò con prepotenza, afferrandolo con i suoi
artigli per le braccia. La sua pelle era umida, scura, a scaglie, simile
a quella di un rettile. Il suo odore acre lo investì tanto da farlo quasi
svenire… avvicinò il muso al suo viso, spalancò gli occhi di brace
fissandolo con uno sguardo tale da far impietrire anche il più rude
tra i nani del continente. Allungò la biforcuta lingua verso il suo
viso, una lingua viscida, urticante, che al solo avvicinarsi alla sua
pelle provocava bruciore.
Era ormai la fine. Uno strano verso incomprensibile, proveniente
da uno degli altri esseri poco più indietro, spezzò il silenzio.
L’essere si voltò di scatto, ma solo per un istante; tornò, infatti,
subito a fissare la sua preda volgendole un ultimo sguardo pieno
d’odio, prima di sferrare il colpo ferale.
Si trasse di scatto indietro lasciando la presa, abbassò la mano
verso la cinta e afferrò una strana arma con un’impugnatura di
bronzo che luccicava in quel tremendo buio. Sguainò l’arma. Era
una lunga spada d’acciaio, la alzò verso il cielo come per caricare il
colpo mortale.
L’ora era ormai giunta.
Unì le mani al petto stringendo con le ultime residue forze il
suo amuleto d’argento, il simbolo di Eldath, ormai intriso del suo
sangue, cercando di capire il perché di tutto ciò.
L’essere sferrò il colpo e un grido agghiacciante attraversò
tutta la foresta: «Noooooooooooo!»
***
«Nooooooooo! No, fratello, svegliati, svegliati!» disse Garin strattonando
di colpo l’uomo ripetutamente ed energicamente, cercando
così di farlo rinsavire.
Di colpo, con un gran respiro, come dopo essere rimasto immerso
per diversi minuti sotto l’acqua, balzò in piedi!
«Fratello, come stai? Che cos’è successo? Devi aver avuto un
brutto incubo ma ora tutto è passato. Sei tornato di nuovo nel
mondo reale, non preoccuparti. Sei di nuovo nel nostro monastero,
qui non c’è nulla da temere».
Reale? si chiese l’uomo. Era davvero stato tutto un brutto sogno?
La tunica bianca che indossava era inzuppata di sudore, il
respiro era ancora affannato, sentiva le gambe ancora affaticate per
la corsa e le braccia indolenzite; abbassò subito lo sguardo verso
il petto, nessuna armatura. La tunica era pulita, fradicia di sudore
ma pulita. La alzò freneticamente, le mani gli tremavano ancora…
e quando finalmente riuscì a scoprire il proprio costato si accorse
che… niente, niente di niente aveva scalfito la sua pelle, ma sentiva
ancora quel dolore, quel dolore che lentamente lo stava abbandonando,
ma lo sentiva ancora, distintamente. Quel bruciore, quel
dolore acuto che gli intorpidiva i sensi… non riusciva ancora a
capire quale fosse la realtà.
Il suo nome era Mogal, un uomo alto, robusto, muscoloso,
andava per i ventotto anni, baffi e barbetta di un castano tendente
al rossiccio, come i capelli, corti, quasi rasati.
Forse un uomo come lui, con un monastero non c’entrava
per nulla, soprattutto in un periodo come questo, dove regnano
guerre, battaglie, intrighi e cospirazioni. Ma questa fu la sua scelta
ben venti anni prima, scelta condizionata da un’infanzia infelice: la
morte dei genitori, il rapimento del fratello maggiore, Laderek…
e forse, proprio per questi motivi, decise di cercare rifugio e pace
nel monastero di Corenea. E proprio grazie all’aiuto dei monaci,
che lo accolsero a braccia aperte quando rimase solo, egli trovò la
forza di non farsi sopraffare dall’ira e dalla smania di vendetta che
cresceva sempre più in lui.
Si lasciò trasportare dalla preghiera, dalla dedizione verso Eldath,
la dea della pace e della tranquillità. Ma qualcosa dentro di lui
era diverso sin dai primi giorni rispetto a tutti gli altri monaci, tanto
che anche chi lo circondava riusciva a percepire questa differenza,
quest’energia. Mogal aveva qualcosa di diverso, qualcosa in più da
dare a quest’epoca infelice che restare chiuso in un monastero a
pregare.
Lerion, il monaco priore, decise così un giorno di riunire l’intero
consiglio per pregare gli dei e per cercare suggerimento, forse
aiuto; l’importante era sapere quale fosse la strada giusta che Mogal
dovesse percorrere. Il responso fu quello di aspettare un segnale,
un sogno premonitore che indicasse quale fosse quella strada,
ma fino a quel giorno il suo compito era quello di rafforzare la sua
fede con la preghiera verso Eldath, rafforzare la sua forza interiore
e sviluppare quelle capacità che nascondeva dentro di sè.
Così negli anni continuò a dedicarsi completamente alla preghiera,
allo studio e allo sviluppo delle proprie capacità con dedizione
e concentrazione.
Poi, un giorno di primavera, un vecchio chierico ormai allo
stremo delle forze e dell’età raggiunse il santuario per cercare Þ nalmente
un po’ di pace, dopo un’intera vita di scontri e di battaglie,
per portare la Verità nelle Terre Bianche invase dal Caos.
Gli fu subito preparata una celletta; aveva proprio bisogno di
riposo, qualcosa da bere e del cibo.
Il priore, dopo esser rimasto per alcuni minuti nella cella del
chierico, disse a Mogal di portare all’ospite alcune vivande.
Mogal, sapendo che il vecchio era già allo stremo delle forze,
si recò immediatamente nelle cucine per preparare qualcosa e, una
volta pronta un po’ di zuppa e un po’ di pane, si recò verso la celletta
dell’ospite; aprì la porta con delicatezza per non disturbarlo
ma l’uomo, seduto sul lettino, esclamò: «Ti stavo aspettando».
«Perdonatemi, ho cercato di fare il più in fretta possibile…»
rispose Mogal porgendo il vassoio verso il vecchio.
«Il mio nome è Emerwen, mio caro giovane Mogal» rispose il
vecchio spostando il vassoio verso il piccolo comodino posto sul
lato del letto. «Era proprio come diceva la profezia. La tua energia
è veramente impressionante, ma sarai solo tu a poterla sviluppare
ancor di più, a imparare a dominarla per poi usarla per il Bene e per
la Verità».
«Ma di che cosa state parlando? E come fate a conoscere il
mio nome?» rispose Mogal con un certo timore.
«Sono tante le cose che conosco, ma purtroppo non ho abbastanza
tempo… Ricorda, tutto ciò che ti svelerò ora non dovrai
mai raccontarlo a nessuno. Questo sarà il mio testamento e tu sarai
il custode di tutte le mie conoscenze. Ecco, avvicinati…» gli disse
Emerwen facendogli segno con la mano sinistra e porgendo la
destra verso Mogal.
Il giovane era spaventato ma allo stesso tempo rassicurato
dalla voce dolce e rauca del vecchio. Si avvicinò cautamente, come
per non fare rumore, e istintivamente s’inginocchiò ai piedi del
letto dove Emerwen restava seduto.
Il vecchio allora tese la mano verso la fronte del giovane e in
un istante un fascio di luce celeste invase la cella: «Io sono solo
un messaggio, una guida che ti aiuterà a indirizzarti verso la strada
giusta. Ricorda che il tuo futuro è già scritto ma dovrai essere tu a
incamminarti sul giusto sentiero. Ciò che imparerai ora non sarà
niente a confronto di ciò che il futuro ti riserverà».
Come Emerwen terminò di parlare, la luce aumentò d’intensità
in un solo istante: fu come se un fulmine avesse invaso la piccola
cella. Una voce profonda intanto rimbombava all’interno della
stanza, parole che per un qualsiasi essere umano erano impossibili
da decifrare, incomprensibili, in una lingua antica di cui solo menti
elevate, solo anziani eruditi avrebbero potuto capirne il signiÞ cato.
Una luce accecante si sprigionò dagli occhi del vecchio chierico, le
parole divennero tuono nelle orecchie di Mogal, il quale non riusciva
a muovere neppure un muscolo, il suo corpo vibrava come
una foglia attaccata a un ramo colpita da una folata di vento. Tutto
a un tratto, silenzio.
La luce si dissolse come nel nulla. Il vecchio cadde all’indietro
sul letto, senza più forze, esanime.
Mogal fu sbalzato per terra. Subito cercò di rialzarsi per capire
quello che era successo, ma vide le condizioni del Chierico e gli si
avvicinò immediatamente: «Emerwen, Maestro, sono ancora tante
le cose che devo sapere, le risposte che mi dovete dare, non abbandonatemi,
vi prego…» disse Mogal trepidante.
Ma il vecchio, con l’ultimo respiro della sua vita mortale, rispose:
«Non preoccuparti, giovane Mogal, io sarò sempre con te.
Ricordati delle mie parole. Non è ancora tempo che tu compia la
tua missione. Verrà il giorno e sarà quell’amuleto che hai al collo a
guidarti nel buio della notte. Ora voglio riposare, mio caro giovane
Mogal. La mia ora è arrivata. Addio, e che Eldath sia con te!»
Dette queste parole, il vecchio tirò l’ultimo respiro.
In quello stesso momento Lerion, Garin e alcuni altri monaci
spalancarono la porta di corsa per via del frastuono udito pochi
istanti prima.
Una luce abbagliante invase la cella… una luce accecante, simile
a quella precedente, ma nello stesso tempo diversa, più calda,
rassicurante, e una voce proveniente come dal nulla disse: «Sarò
sempre con te, giovane Mogal, e nella notte in cui vedrai la tua fede
intrisa del tuo stesso sangue comincerai la tua nuova vita e la strada
ti verrà indicata».
Come per incanto, il corpo del vecchio chierico si dissolse da
sopra il letto, e più il corpo si dissolveva più l’intensità della luce
diminuiva, fino a che tutto scomparve.
Tutti i monaci s’inginocchiarono, giungendo le mani al petto,
ai piedi del letto, per pregare per la visione.
Dopo qualche secondo, Lerion si alzò in piedi, avvicinandosi
lentamente verso Mogal. Si accostò a lui appoggiandogli la mano
sulla spalla e, avvicinandosi al suo orecchio, sussurrò: «Non dire
niente, giovane Mogal, fai tesoro di ciò che hai ascoltato. Gli dei mi
avevano già predetto l’arrivo di quest’uomo, la tua guida, il tuo Maestro.
Ora dovrai rafforzare solo la tua fede e la tua forza interiore
finché un giorno finirà l’attesa di quel segno… e in quel giorno la
strada che dovrai percorrere ti sarà rivelata!»
Dette queste parole, Lerion si allontanò uscendo dalla cella, e
così anche tutti gli altri monaci si alzarono silenziosamente recandosi
nella cappella a pregare per l’anziano chierico.
Da quel giorno la preghiera di Mogal divenne sempre più intensa,
la sua forza interiore continuava a crescere, divenendo sempre
più potente, tanto potente da donargli alcuni poteri incredibili
per qualsiasi uomo comune, come ad esempio la lettura del pensiero
e la telecinesi. Il suo potere cresceva ogni giorno sempre di più
e la vita nel monastero cominciava a diventare sempre più stretta
per la sua energia.
Anche lo stesso Lerion cominciava a preoccuparsi per Mogal,
ma dovevano attendere il segnale.
E poi, finalmente, quella notte… quel sogno… il segno, il suo
ciondolo nel buio, tra le sue mani insanguinate.
Subito Mogal fu convocato nella sala del consiglio dove Lerion,
di fronte a tutto il consiglio, rivelò quale fosse la strada rivelatagli
da Emerwen prima dell’incontro con Mogal: «Mio caro
figliolo, nel giorno in cui la tua guida arrivò nel nostro monastero,
io scambiai con lui alcune parole poco prima che egli t’incontrasse
e mi rivelò che nel giorno in cui tu avessi visto in sogno la nostra
amata Eldath intrisa di sangue, io avrei dovuto lasciarti andare,
liberarti da ogni vincolo che ti lega a noi tutti. Allora le sue parole
non mi erano chiare, ma ora tutto è compiuto, perché da oggi il
futuro sarai tu a doverlo scrivere, e col tuo, anche quello di tutti noi
altri. Dovrai recarti a Gester, la capitale della regione del Sud, ed entrare nel
nido del corvo. Lì, gli orsi t’insegneranno il potere della spada e con loro, con la
tigre, il lupo, la volpe e lo squalo distruggerete la tana del serpente. Presta attenzione
però, giovane Mogal, il serpente non è il solo rettile che striscia sopra e
sotto la terra. Esso ha molti fratelli infimi, viscidi e pericolosi. L’esercito d’ossa
che affronterete sarà la prova più ardua da affrontare ma, con l’aiuto del geco,
distruggerete anche il Drago della Morte. Ricorda però che l’unico modo per
riuscire a riportare la Luce nelle tenebre sarà quello di spezzare in due la corona
del male. Queste sono le parole che mi disse il vecchio Emerwen
e che mi fece memorizzare per potertele dire in questo giorno.
Ricorda, giovane Mogal, questa è la strada che dovrai percorrere!»
e avvicinandosi a Mogal, con sguardo rassicurante, gli disse: «Va’
figliolo, compi il tuo destino. Libera questa terra dal male. Va’ e
non guardarti indietro. Noi tutti pregheremo per te, per aiutarti
nella tua ardua impresa. Ora vai, Mogal, e che Eldath ti protegga!»

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